LO SPOT CHE DIVENTA CINEMA: David Lynch e l’eternità della pubblicità

“Keep your eye on the donut and not on the hole”.

Con questa frase surreale, degna di un sogno firmato Twin Peaks, la famiglia Lynch ha annunciato la scomparsa di uno dei registi più visionari della nostra epoca. David Lynch ci ha lasciati il 9 gennaio 2025, ma il suo immaginario continua a vivere. Non solo nei suoi film e nelle sue serie, ma anche in un angolo spesso dimenticato della sua produzione artistica: la pubblicità.

 

Chi ha detto che uno spot debba limitarsi a vendere? Per Lynch, ogni inquadratura era un enigma, ogni messaggio pubblicitario si trasformava in un piccolo cortometraggio onirico, sospeso tra il quotidiano e l’inquietante. Gli spot che ha diretto negli anni ’80, ’90 e 2000 sono ancora oggi oggetti di culto, perché non si limitavano a promuovere un prodotto: lo trasformavano in esperienza. E, come ogni esperienza lynchiana che si rispetti, lasciavano il pubblico con più domande che risposte.

David Lynch e Natasha Poly nello spot “Gucci by Gucci” il 14 maggio 2007

David Lynch e la pubblicità: un sodalizio impensabile ma inevitabile

Cosa ci faceva il regista di Strade Perdute e Mulholland Drive dietro la macchina da presa per uno spot pubblicitario? La risposta è semplice: esattamente quello che faceva nel cinema. Creava mondi. Creava atmosfere. Creava inquietudine.

 

Negli anni, i grandi brand hanno capito che un nome come il suo poteva trasformare una semplice pubblicità in un evento visivo senza tempo. Calvin Klein, Giorgio Armani, Yves Saint Laurent, Sony, Barilla: tutti hanno affidato il loro messaggio a Lynch, lasciandogli carta bianca per dipingere il suo immaginario nelle cornici di 30 o 60 secondi.

 

E lui lo ha fatto a modo suo.

Gli spot pubblicitari di Lynch che hanno segnato un’epoca

Calvin Klein – Obsession (1988)

Il profumo diventa poesia. Lynch dirige una serie di spot per Obsession, ispirandosi a giganti della letteratura come Ernest Hemingway e D.H. Lawrence. Il bianco e nero, i volti enigmatici, la voce fuori campo che recita parole dense di mistero: ogni frame è un quadro in movimento, ogni secondo è un invito a perdersi in un sogno.

 

Georgia Coffee – Twin Peaks in Giappone (1991)

Lynch che fa pubblicità a un caffè in lattina giapponese? Certo. E lo fa trasformando lo spot in una nuova puntata di Twin Peaks, con tanto di Kyle MacLachlan nei panni dell’agente Cooper. È il caso pubblicitario più strano e geniale che si possa immaginare: il marchio diventa un pretesto narrativo, una scusa per immergersi ancora una volta nel microcosmo surreale della serie cult.

Giorgio Armani – Giò (1992) 

Giorgio Armani voleva Lynch, e Lynch gli ha dato un viaggio sensoriale tra Fellini e il noir americano. Lo spot per Giò è un sogno liquido, fatto di corpi sfocati, fumo, ombre e silhouette femminili. È pubblicità? È cinema? È Lynch. E basta.

 

PlayStation 2 – The Third Place (2000)

Sony gli chiede di lanciare la PlayStation 2, e Lynch risponde con uno degli spot più inquietanti della storia della pubblicità. Un uomo con una testa gigante, immagini disturbanti, suoni che sembrano usciti da una dimensione parallela. Il videogioco come varco verso un’altra realtà, in pieno stile lynchiano.

L’eredità di Lynch nella pubblicità: l’insegnamento che non dobbiamo dimenticare

Nell’era del marketing digitale, dell’informazione istantanea e dei contenuti usa e getta, la pubblicità si è trasformata in un flusso incessante di stimoli che raramente lasciano il segno. Le aziende inseguono metriche di engagement, i brand rincorrono il trend del momento, e il pubblico, ormai anestetizzato dall’overload di messaggi, scorre senza fermarsi davvero su nulla.

David Lynch, con la sua pubblicità d’autore, ci ha insegnato un’altra strada. Una pubblicità che non spiega, ma che suggerisce. Che non si consuma nel tempo di uno scroll, ma che si sedimenta nella memoria. Che non urla per attirare l’attenzione, ma sussurra e lascia interrogativi aperti.

 

Oggi, il mondo del marketing ha un disperato bisogno di tornare a quello che Lynch ci ha mostrato con i suoi spot: la pubblicità può (e deve) essere un’esperienza sensoriale, emotiva, irripetibile. Deve creare suggestioni, evocare mondi, regalare visioni. Se un messaggio pubblicitario non lascia un’eco dietro di sé, allora non ha fatto il suo lavoro.

 

Troppo spesso si confonde l’impatto immediato con la risonanza duratura. Lynch ci ha ricordato che il mistero vale più della spiegazione, che un’atmosfera conta più di mille parole, e che un’immagine può incidere più di qualsiasi call to action. Oggi, in un’epoca in cui il contenuto sembra dover essere sempre più breve, più veloce, più misurabile, forse è il momento di rallentare e guardare davvero.

 

Perché se uno spot è solo uno spot, allora è già dimenticato. Ma se diventa una storia, un’emozione, un frammento di sogno, allora rimarrà per sempre.

Come ci ha insegnato David Lynch.

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